La bizzarra alimentazione degli anni all'università, la dieta creativa di studenti e studentesse, tra surgelati multistrato e carbonare olimpiche...di Paolo Ruggiero
“Dagli anni di studio mi porto
dietro forse un solo rimpianto: quello di non essermi alimentato
bene!”.
Questa la considerazione di un
amico neolaureato e soddisfatto, una sera a cena in trattoria,
dietro a un generoso primo piatto.
Se è vero che saper mangiare è un’arte, allora lo studente che si allontana da casa e dalle pietanze materne quest’arte è costretto a riarrangiarsela da sé, con pazienza, sfidato dall’inedita e a volte un po’ seccante libertà di poter gestire la propria alimentazione non solo nel consumo, ma anche nella produzione.
Per alcuni possono trascorrere
anche anni prima di riuscire a trovare una padronanza, una propria
formula davanti ai fornelli, da custodire poi gioiosamente o da
condividere con gli invitati a cena.
In genere accade più o meno così:
si approda a Bologna in gran forma, con le guance rosate, il giusto
tono; anche moderatamente soprappeso, e non guasta, con l’inverno
che morde.
Le ultime analisi del sangue sono
un documento incorniciabile,
il certificato di una condizione fisica senza grinze. A cominciare dai primi giorni, il disorientamento e il tempo che scappa spingono però quasi sempre a scegliere la strada semplificante del fast-food, del combinato a 10 sacchi, bevanda e ghiaccio compresi; oppure del quadretto di pizza con bis, dell’arancino di gomma a seguire, ordinato anche con uno spizzico di orgoglio, con un senso di urbanità.
I vuoti allo stomaco vengono
compensati mangiucchiando qua e là,
servendosi al bar, o gettonando il distributore di merendine tutte
“ciccia e brufoli”, in facoltà.
Si cammina con la bocca piena, si
stappano e ritappano bottiglie d’acqua da mezzo.
Per chi fuma, la paglia si fa più
velenosa, usata com’è anche per spegnere le chiamate della fame.
Dopo qualche settimana condotta così il colorito del viso inizia a virare verso il grigio-verde, lo sguardo pare più spento, il sorriso è diventato un ghigno, e di fronte allo specchio non si può più bluffare: l’amor proprio ci avverte che la carta fast-food/snack, riproposta in questo modo, ad oltranza e senza variazioni, non è più giocabile, anche sul piano economico.
Ecco allora che si entra al
supermercato, finalmente con una lista meditata a casa, con un
progetto di benessere e di rivincita, spesso accompagnati da nuovi
amici, dai compagni di appartamento, ciascuno col proprio prodotto
d’affezione da gettare nel carrello.
Le ragazze paiono essersi
svegliate prima: padroneggiano terminologia medica, lieviti di
birra e bifidi attivi, uova biologiche da allevamento all’aperto.
Nel market entriamo quasi senza
accorgerci che stiamo dando l’avvio a una familiarizzazione, a un
passaggio - anche piacevole - che diventerà presto obbligato,
diuturno, che porterà a muoverci automatici e sovrapensiero tra i
bancali e le offerte della settimana, tra le cassiere part-time e il
settore vini, tra il reparto surgelati -che richiede decisioni e
mano rapidi- e il banco dei salumi, quest’ultimo da avvicinare
una tantum.
Chi ha l’auto spesso si serve al
centro commerciale, scaricando poi dal bagagliaio scorte d’acqua da
allarme atomico, ingolfando il frigo di prodotti da consumare
preferibilmente entro il sabato seguente.
Per molti il cambio di casa, il trasloco, porta con sè anche la nostalgia per il supermarket perduto, nel quale comunque ogni tanto si tornerà a ritrovare, nella nota disposizione dei prodotti e dei colori, un deja-vu dell’anno precedente, di quando - è giusto riconoscerlo - si mangiava sicuramente un po’ peggio.
Sì, perché con l’esperienza
abbiamo imparato a diversificare la nostra dieta, ad affinare le
nostre preferenze, e ci siamo via via affrancati da
un’abitudinarietà che guasta.
Dunque la spesa intelligente,
d’accordo; e poi qualche sortita in mensa, anche per vedere chi c’è,
la pizza delivery che risolve, la puntatina al cinese, l’assaggio
sperimentale di cucine esotiche da poco sdoganate.
E ancora: la condivisione regionale in appartamento, il prodotto tipico trasportato in valigia o recapitato a sorpresa con pacco postale, la ricetta scopiazzata in tempo reale dalla tele, con quello che c’è.
E poi, nel taccuino,
quell’elenco di trattorie anche fuori porta, una lista per iniziati
che ci è stata trasmessa nei mesi, a puntate, oralmente: sempre
preziosa per togliersi lo sfizio dell’abbuffata, a prezzi politici
ma con prenotazione.
Ma ecco che raggiunta questa nuova consapevolezza culinaria e mangereccia capita a volte - fatto curioso! - di ricadere sul combinato a 10 sacchi, quasi a voler ritrovare proustianamente un sapore inalterato di vecchi tempi, di quando eravamo matricole fresche e forse ci volevamo appena un po’ meno bene.
Il Bello di Bologna, supplemento del quotidiano Il Domani di Bologna, 19 marzo 2001 (gli anni all'università...)
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