Una giornata di aprile a Milano. Un estratto dal romanzo
La grande stagione (Castelvecchi)
(Arrivato a Milano da Bologna con il Frecciarossa delle 8:20).
Esci dalla Stazione Centrale e ti vernicia subito una diversa qualità
dell’aria.
In un giorno senza vento come questo, l’inquinamento
ha un impatto quasi plastico con il sistema respiratorio.
È come un film di cellophane che viene steso sui bronchi da un’imballatrice,
per proteggerli dall’inquinamento stesso. Una sensazione particolare,
mai provata in altre città.
Milano, 9:50. Umidità al settanta percento. Via Vitruvio. Da finestre
semiaperte intravedo esseri umani sigillati in uffici, a navigare su
Facebook, lampeggiare su YouTube. A telefonare: «Ooh, ciaooo,
carissssimo!».
Milano ragazzine con Adidas immacolate. Adolescenti truccate a
tinte forti, con grandi cuffie sopra i capelli ridono al telefono, avvicinando
l’auricolare alle labbra.
In un bar prendo una focaccina da un euro: carboidrati, benzina.
Prevedo di camminare a lungo. Procedo sul marciapiede di Corso
Venezia.
Milano 11:30. Dalle facce dei mariti, asciutte, o spumate dai lipidi,
puoi immaginare che tipo di dieta gli somministrino le mogli. Che tipo
di mangime.
Milano, non ancora via Montenapoleone ma quasi.
Lei bionda, messa in piega, capelli sfilati appena sotto le spalle. Stivaletti in pelle
nera con cinturino, minigonna di velluto.
Lui pullover indaco, capelli
corti, colpi di gel. Aria da broker immobiliare.
Un folder Gucci
sotto al braccio.
Lei si trattiene come intontita, il naso incollato alla vetrina di Bulgari.
Profilo perfetto, pure troppo. Nasino retrattile.
Si volta verso
di lui: «Sono stata brava, eh?». Sorride. «Me lo merito, un regalino!…».
Bologna, ieri, stessa ora, Esselunga di via Lenin. «Ce l’ha, la
carta Fidaty?» ha detto la cassiera con accento barese, senza guardarmi
negli occhi.
È la formula che chiude la routine della spesa. I
capelli tinti male, biondo color Alpenliebe in offerta alla cassa.
Milano 12:30. L’inquinamento scioglie i succhi gastrici, stimola
fame selvatica nell’ora della pausa pranzo. Bar e tramezzinisti lo sanno.
Impilano sandwich a cascate, a monticelli dietro le vetrinette.
Gli interni dei bar odorano di ferro, plastica cotta e microonde.
Milano in “pausa pranzo”, fibrillazione di folla. Lo scooter 50 di un
take-away mi incalza sul marciapiede. Rallento il passo, dà un colpetto
di clacson invitando a scansarmi. Mi giro di scatto, pronto a colpirlo.
Salta giù dal marciapiede, rischia di farsi investire da un taxi e accelera,
gas di scarico celeste sulle mie urla.
Cerco aree pedonali, un po’ di sollievo dai rumori. Mi siedo sui
gradoni del Duomo, non ho voglia di entrarci dentro. Gli interni delle
chiese, la loro frescura, mi ispirano solo d’estate.
Chiedo a una ragazza
indiana come si arriva a Corso Sempione. Sposta di scatto la borsetta,
la ripara sotto al gomito. Mi colpisce con un «No!» intossicato
di diffidenza. Una reazione di difesa istintiva, talmente dura da diventare
a sua volta aggressione, violenza.
Milano 13:30 sotto portici quadrati, mi faccio strada a fatica tra la folla
adolescente odorosa di genitali, di ascelle sudate, che staziona davanti
al McDonald’s. Ragazzine mi tocchicchiano. Sento che una Rebecca
chiama una Liuba, Liuba ridacchia a Rebecca. Mi stanno simpatiche.
Milano sirene di ambulanze a due metri dal passeggio, incastrate
nel traffico, sono trapanate ai timpani.
Milano tra nuvole color alluminio spunta a tratti un po’ di sole.
Una luce afflitta, senza mordente. Scopro anche dov’è il Piccolo Teatro.
Immagino Strehler uscire con due allieve sotto braccio, con un’Ornella
Vanoni giovanissima, sommersa dai capelli.
In via Dante affiches
esotiche della Emirates, gigantesche.
Solleticano l’urgenza di evasione
dei milanesi.
Milano 13:45. Guardo nei piatti degli impiegati, attovagliati su
dehors che occupano tutto il marciapiede, sotto ombrelloni sciupati
da piogge corrosive. Masticano foglie di cespuglio spacciate per insalata,
carpaccio color Pantone 485.
Addento a mia volta un sandwich con foglie di platano e schegge
di uova sode, con vista sulle vetrine patinate di Moroso Design.
Milano che in realtà sa come mostrarsi bellissima indoor, in certi interni
di appartamento, Milano che compensi così la tua durezza outdoor.
Milano 14:45. Comincia a piovere. Pioggia leggera, gocce sospese
a mezz’aria, come moscerini, dà un po’ di sollievo ai polmoni. Salgo
su un autobus.
Arriva fino in stazione, torna indietro. Sto seduto,
come un pensionato.
Ragazzine in piedi parlano accelerate, accavallando
parole, cinguettii, eruzioni di sillabe nonsense.
Milano 15:15. Dai finestrini sfilano negozi da terza classe, di batterie
alcaline, cellulari ancora con la tastiera, svenduti a pochi euro.
Le fermate sono annunciate da una voce da istruttrice di danza, un
leggero accento brianzolo, un po’ troppo puntiglioso, pedante.
Milano 15:20 una Golf lo ha urtato, uno scooter è scivolato sull’asfalto
bagnato. Non si è fatto male. Milano provo anche un tram. Appoggio
le chiappe su predellini in legno, essenziali, da penitenziario.
Fanno pensare alla Milano anni Sessanta fosca di Luciano Bianciardi.
Milano 16:30, dentro una libreria. Ho preso quattro tascabili. La
tipa alla cassa, montatura da vista rossa, ha scansionato i codici a
barre.
Uno è passato a nove euro anziché sette. Sette è il prezzo stampato sulla quarta di copertina.
Avevo calcolato il totale.
Deprime l’idea che alcuni libri, che chissà quanti altri prodotti possano essere
memorizzati in archivio con una “cresta”, che spetterebbe solo al
cliente di accorgersene. Milano la Krisi che perdura, maquillata in
fine della crisi da oh-ciao-carisssimo e sorrisi.
Milano ho protestato, mi sono fatto restituire i due euro. Milano
anche mentre mi muovevo tra gli scaffali mi sentivo osservato, pesce
fuor d’acqua. Colpevole di essere in libera uscita al pomeriggio.
Milano il pomeriggio o conduci un tram, o stai in ufficio, o in uno
showroom, al limite dietro a un bancone o un registratore di cassa. In
giro non puoi starci.
Non sei legittimo, sei sospetto, dropout. Come uno
degli ultimi eroinomani, quelli storici, zombie del Parco Lambro.
Milano cinque anni fa c’ero stato una settimana, ospite da cugini
di secondo grado. La vita notturna, la movida, mi erano piaciute,
anche se con riserva, anche se il paragone con Bologna non reggeva.
Soprattutto per le distanze da percorrere. Ricordo che passammo
metà della notte in macchina. Clacson premuti istericamente anche
a notte fonda, cocainés.
Macchine sempre piene di quattro, cinque
persone, autoradio a palla che gonfiavano i finestrini con i bassi.
Rientrando, scie di anabbaglianti e semafori persistevano a lungo nella
retina, un effetto strano, dopo vari negroni sui Navigli. Mi ero chiesto
se ci avessero aggiunto piccole dosi di farmaci scaduti, di oppiacei.
Milano oggi mi sembra una metropoli ripiegata, sulla difensiva. Milano
forse ho solo scelto il giorno sbagliato per venire a trovarti. Milano
resistono parecchi dettagli anni Sessanta, Settanta, Vallanzeschi.
Nei fittoni spartitraffico, nelle insegne appena fuori dal centro, nelle
prospettive di monoblocchi condominiali. Milano mi sarebbe piaciuto
incrociare Patrizia Valduga, o Maurizio Pollini.
Milano ci si aspetterebbe di vedere l’uomo Cynar seduto a un tavolino,
da solo in mezzo al traffico, arrotato dai parafanghi di una Fiat 128.
Milano ero ben disposto, stamattina. Però Milano perdonami, ma
ti trovo dura da digerire, priva come sei di piazze o di vicoletti caratteristici,
intimistici, già, non solo Intimissimi. Priva di tracce medievali.
Il tuo cielo anche lui eterno come quello di Bologna, come ciascun
cielo, che però qui ho ritrovato color freno e frizione, un cielo da
autofficina.
Milano il cemento dei tuoi marciapiedi fa male ai tendini,
dopo chilometri a piedi.
Milano il tuo grigio antracite ha un suo carattere ma continua a non
esaltarmi, lo preferisco reinterpretato nelle foto di Gabriele Basilico,
quel bianco e nero rigoroso e a piombo, che lui sapeva impaginarti
magistralmente.
Milano verso la Stazione Centrale, nei tratti in cui il marciapiede è
più bituminoso diventa un groviera di segni circolari dei cavalletti
degli scooter, sono fori estivi, quando il marciapiede rovente diventa
gommoso come caucciù.
Milano 19:30 mi sembri ostica, aggressiva nell’interazione sociale
del dopolavoro, per quanto verniciata di carissimi, ma è anche vero
che questa volta ho saltato i Navigli. Milano le tue ragazze a volte
con le gambe troppo ossute, chine sullo smartphone, assidue di tapis
roulant e corsi di Body Attack.
Ma le città sono “belle” o “brutte”, gradevoli o meno, digestive o
indigeste, anche a seconda delle esperienze che ci peschi dentro, mi
dico lasciandomi andare sui sedili bordeaux e arancio, sudici, del
Frecciaargento, che in un paio d’ore mi riporterà a casa...
(Continua a pag. 73...)
- ...
- 😂
- Ma chi ha scritto queste cose su Milano?
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